| Coriano. Era il loro mito, il loro modello, il loro punto di riferimento. Per i ragazzini del Moto Club «Renzo Pasolini» e degli altri motoclub della Romagna, accompagnare il feretro di Marco Simoncelli, sedersi all'uscita della Chiesa per abbracciare il babbo Paolo, è stato ieri come un reciproco abbraccio familiare. Come loro, Simoncelli aveva cominciato ad andare in moto quando gli altri bambini imparano ad andare in bicicletta o a giocare a pallone. Per chi non è nato in quella fetta d'Italia che va, più o meno, da Imola a Pesaro, è una cosa difficile da capire, sembra una pericolosa stramberia. Ma se quasi tutti i più grandi piloti italiani della storia del motociclismo sono nati qui non è certo un caso. Non è chiaro per quale ghiribizzo della storia la Romagna sia diventata la terra del «mutor» (ovvero la moto, lo scooter, il motorino, tutto quello, insomma, che ha due ruote e romba), ma qui ci sono diversi motoclub che come principale attività hanno proprio quella di avviare i piccolissimi alle moto. E così SuperSic è stato circondato in questa sua ultima corsa dalla sua tribù: da una parte i ragazzi di Coriano, gli amici di una vita, tutti con una maglietta con il «Zinquantot», 58, il numero di gara di Simoncelli, dall'altra i ragazzini delle minimoto, i fratellini, i futuri campioni, tutti con la loro tuta da piccoli adulti. «Siamo dispiaciuti - ha detto Mattia, 12 anni - per noi Marco era un mito. Era riuscito a vincere e diventare un fuoriclasse continuando a divertirsi». E quindi per loro è stato naturale sedersi con suo babbo Paolo e asciugargli dalle lacrime i baffoni. Perché in pista ci si dà tutti del tu. Ci si ama e si litiga come una famiglia vera, e come in una famiglia vera è normale starsi vicini nel dolore. Non è inusuale, qui, che un bambino di cinque anni venga messo su una minimoto: sono piccoli bolidi di 40 centimetri cubici di cilindrata (depotenziati e con particolari limitazioni di sicurezza) sulle quali si prende familiarità col motore. Da otto anni cominciano le gare: c'è chi è più bravo, c'è chi lo è meno, come in tutti gli sport, quasi sempre è una passione che nasce in famiglia. Dopo un pò i ragazzini si appassionano, i mariti litigano con le mogli e ogni tanto salta fuori un supercampione. Quando aveva sette anni, ad esempio, Marco Simoncelli già metteva in riga tutti. I ragazzi di Coriano, invece, hanno perso soprattutto un amico. Per tre giorni hanno avuto gli occhi del mondo addosso e quel mondo hanno fatto di tutto per accoglierlo al meglio, occupandosi in ogni dettaglio dell'organizzazione del funerale. Spenti i riflettori si sono trovati soli con il loro dolore. Ma non si sono messi a piangere: hanno preso il loro «mutor» e hanno ricominciato a sgasare e impennare. Sull'onda della commozione il suo paese natale vorrebbe intitolargli il Palasport: ma ci vanno piano, perchè il luogo più ovvio e appropriato per celebrare la sua memoria e lì, a pochi passi. È proprio lì che nel giorno dell'ultimo saluto tanti bikers, tanti appassionati delle due ruote si sono dati appuntamento. Certo, chi si aspettava la folla è rimasto un pò deluso: un migliaio di persone, quasi tutte sulle due ruote. Quasi tutti i tifosi hanno preferito la levataccia, hanno preferito farsi anche diversi chilometri a piedi (la strada per Coriano era bloccata dai vigili) e sopportare gli inevitabili disagi pur di essere lì e salutare di persona, per l'ultima volta, il loro grande campione.
«Siamo solo noi, è vero, quelli che muoiono presto. Ma no, è maledettamente falso che poi è lo stesso». O almeno lo è per le migliaia di persone che hanno partecipato, a Coriano, al funerale di Marco Simoncelli, per i milioni che si sono commossi davanti alla tv. La musica di Vasco Rossi ha salutato per l'ultima volta Supersic, nell'ultimo commovente abbraccio alla famiglia speciale di un ragazzo speciale. Babbo Paolo a dire a tutti, «Forza, forza», come se volesse essere lui, che non ha perso solo un figlio, ma anche un compagno di giochi e di sogni, a dover consolare, uno per uno, quella marea di persone che dal vivo o a distanza ha fatto sentire alla famiglia l'affetto di tutta l'Italia. Il funerale di Simoncelli sembrava pensato da lui, tanti colori, tanta musica, il «58» declinato in tutti modi (sui muri, sulle vetrine, nei palloncini, sulle magliette) le moto che entrano in Chiesa, tanti tanti amici. Si piange, come ovvio. Ma non bisogna dimenticarsi di sorridere. «Qui si celebra - ha sintetizzato il dottor Claudio Costa, il medico dei piloti, una figura quasi paterna per il circus - la vittoria più grande di Marco Simoncelli, perchè ha trionfato sulla morte: Marco oggi diventa uno di voi. Questo è l'ultimo scherzo che vi ha fatto. Voi credete che sia qui dentro, ma Marco sta sorridendo e stasera tornerà a casa con la sua famiglia e soprattutto con tutti voi». Il mondo del motociclismo italiano e non solo c'era tutto. C'era Andrea Dovizioso, che non ha smesso di piangere nemmeno per un secondo, c'era il veterano, impietrito, Loris Capirossi, l'amico-rivale Jorge Lorenzo e tanti altri. E c'era soprattutto il pilota con il quale Simoncelli aveva un legame speciale, quello che lo ha visto morire a pochi centimetri. Valentino Rossi ha resistito alla commozione. Mentre gli amici di Coriano portavano a mano il feretro, lui ha preso la moto del suo «fratellino» e senza uscire dalla Chiesa ha girato la manopola del gas e le ha fatto cantare il suo ultimo pianto, la sua ultima preghiera. Si è fatta forza Kate, la fidanzata, che ha seguito il funerale insieme alla famiglia. E mentre mezza Italia piangeva con lei, mentre 58 milioni di abbracci si stringevano attorno a Paolo, alla mamma Rossella e alla sorellina Martina, ha preso la parola e ha lasciato il suo ricordo: «Lui aveva solo pregi, era una persona perfetta. E le persone troppo perfette non possono vivere con noi comuni mortali». È stato vastissimo il cordoglio che si è stretto attorno alla famiglia Simoncelli. Dopo il bagno di folla della camera ardente (ventimila mercoledì) c'erano migliaia di persone a salutare superSic. Difficile, se non impossibile, quantificarle in un tranquillo paese di collina, dove di solito la pace è rotta solo dal rombo degli scooter truccati e che non è certo abituato ai riflettori. A rappresentare le istituzioni il ministro della gioventù Giorgia Meloni e il sottosegretario allo sport Rocco Crimi. La faccia dell'eroe tragico, il vecchio Sic, non ce l'aveva proprio: troppo guascone, troppo irriverente, troppo vivo per essere accomunato all'idea della morte. Al vescovo di Rimini Francesco Lambiasi l'idea che lui stia insegnando ad impennare agli angeli, come stava scritto su uno striscione comparso gia domenica davanti alla chiesa, non è dispiaciuta. «La sera prima dell'ultima gara - le parole del vescovo durante la Messa - hai detto che desideravi vincere il Gran Premio, perchè lì sul podio ti avrebbero visto meglio tutti. A noi ora addolora non riuscire a vederti, ma ci dà pace e tanta gioia la speranza di saperci inquadrati da te dal podio più alto che ci sia». Senza prendersi troppo sul serio, ovviamente, nemmeno lì.
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